Renè Andreani si è addormentato, ricordo di Vittorio Pezzuto

RENÈ ANDREANI SI È ADDORMENTATO

 

di Vittorio Pezzuto
31 dicembre 2015, ore 22. Mi trovo in un albergo a San Vigilio di Marebbe e squilla il telefono. Che strano, penso guardando il display, è Renè che vuole farmi gli auguri di buon anno. Faccio appena in tempo a dire «Pronto» ed ecco che vengo travolto: «Sei una grandissima testa di cazzo! Sono mesi che non ti fai sentire! Ho sempre saputo che eri una merda d’uomo ma non pensavo fino a questo punto!»
Aveva ragione, ovviamente. Il fatto è che gli amici migliori e le persone che più hanno segnato la mia vita li cerco raramente, adesso che non posso più frequentarli come prima. Continuano a popolare senza sosta la mia personale geografia affettiva e trovo inutile augurar loro buon compleanno o buon anno quando sappiamo benissimo che gli anni migliori sono quelli che abbiamo trascorso insieme. A ogni modo, da quel momento Renè l’ho sentito più spesso, le ultime volte quando decisi di mettere nero su bianco i ricordi delle nostre comuni imprese.
Se li ripropongo è perché qualche sera fa si è addormentato di colpo a letto mentre ascoltava Radio Radicale. Da allora non si è più svegliato, e stamattina ho saputo che non potrò più essere cazziato da un uomo straordinario, che tanto ha influito sulla mia formazione personale. Se un poco lo conosco, mi sa che starà già cercando tra le nuvole Marco Pannella, indossando al collo un cartello di protesta e rompendo i coglioni a tutti quanti con il regime alimentare vegano, la digiunoterapia e chissà cos’altro ancora….

ALLE TRE DEL MATTINO NELLA CAMERA DI PIPPO BAUDO

1 maggio 1982. Sarà pure la festa dei lavoratori ma nel salone della vecchia sede di via di Torre Argentina 18 non si batte la fiacca. Siamo nel pieno della campagna contro lo sterminio per fame nel mondo e a qualcuno viene in mente un’idea: perché non organizzare per l’indomani, terz’ultima giornata del campionato di serie A, un minuto di silenzio in tutti gli stadi per sensibilizzare i tifosi? Proposta suggestiva ma un filino velleitaria, se non altro per il burocratico diniego («E ‘sti cazzi!») espresso poche ore dopo dalla Federcalcio. I vertici pallonari non hanno però fatto i conti con uno dei giocatori più talentuosi e coriacei che abbiano mai militato nella squadra della Rosa nel pugno. Manca un’ora e mezza all’inizio di una partita decisiva per la salvezza del Genoa quando questi si presenta all’ingresso del Tempio: lo stadio Luigi Ferraris, per i profani. «Sono René Andreani, devo passare per una questione urgente» spiega al custode, già attonito per lo sguardo di feroce determinazione che si ritrova davanti. Il poveretto capitola lasciandogli il passo, e dopo di lui anche i colleghi a guardia dei cancelli laterali al terreno di gioco. Giunto in prossimità degli spogliatoi, il nostro punta su quello dei Grifoni. Spalanca la porta e vi trova una squadra concentratissima che sta per giocarsi il tutto per tutto contro il Bologna (lo batterà 1-0 dopo 90′ in apnea). «Scusatemi, qui dentro chi è il capitano?» Si fa avanti Claudio Onofri. «Sono René Andreani. Vieni via, che devo spiegare una cosa a te e al collega dell’altra squadra». Onofri lo segue incuriosito e una manciata di minuti dopo il radicale sta già catechizzando i due calciatori: «Dunque, sono René Andreani e oggi dovrete osservare un minuto di silenzio in ricordo dei morti per fame nel mondo.» Quelli annuiscono senza troppo entusiasmo, rassegnandosi ad accompagnarlo nello stanzino dell’arbitro Barbaresco. «Buongiorno, sono René Andreani e volevo comunicarle che i capitani delle due squadre hanno deciso di osservare un minuto di silenzio contro lo sterminio per fame. A lei il compito di fischiarlo una volta entrati in campo». Quindi lascia gli spogliatoi e sale nel gabbiotto dello speaker ufficiale, mettendolo al corrente di quanto sta per accadere: «Le sarei grato se volesse annunciare questo gesto simbolico al microfono per informarne tutti gli spettatori». Ottenuto il suo assenso, costeggia il prato verde nel lato opposto dal quale era venuto, si fa aprire altri cancelli laterali pronunciando ogni volta la consueta parola d’ordine («Sono René Andreani») e infine si accomoda senza biglietto in tribuna d’onore. Tutto va come stabilito: lo speaker annuncia, l’arbitro fischia, i giocatori e gli spettatori ammutoliscono. Quanto alla società del Genoa, lasciata ignara del tutto, le toccherà pagare una multa alla Federcalcio per aver dato vita a un’iniziativa non autorizzata. Un dettaglio trascurabile, rispetto alla domanda che continueranno a farsi per molto tempo gli addetti ai lavori: «Ma questo René Andreani, chi cazzo era?»

Ve lo spiego io. Manager del cantante Rocky Roberts (al termine dei concerti, dopo aver cantato “Stasera mi butto”, immancabilmente si buttava sulle fan più appetibili e a René toccava il compito di depistare l’innamoratissima Lola Falana), protagonista alla batteria di alcune jazz session con un certo Lucio Dalla ma soprattutto organizzatore pirotecnico di feste in costume che lasceranno un segno indelebile negli anni Sessanta. Due in particolare. La prima a Carloforte sull’isola di San Pietro, dove organizza un baccanale in piena regola: lui nelle vesti di Imperatore seduto sulla tazza di un cesso trasformata in trono mentre due schiave in topless gli fanno aria con le palme e intanto sul bagnasciuga scorrazzano bighe romane trascinate da cavalli. Il tutto si concluderà con una simpatica orgia e da qualche parte conservo una copertina del settimanale “Abc” che nel fotone in ultima pagina ritrae in primo piano una chiappa del nostro avvinghiata in una selva di corpi, roba che oggi minimo minimo ti arrestano (quando ripartirà col traghetto alcuni isolani innalzeranno disperati cartelli con sopra scritto “René resta con noi” “Non ci lasciare!”). La seconda ai bagni di Capo Marina quando alla guida di una brigata di trecento perditempo, questa volta travestiti da pirati cannibali a bordo di piroghe, sbarca sul placido litorale genovese. Due giorni di bagordi ininterrotti, che questa volta verranno immortalati sulle pagine di “Novella 2000”. Forse in preda a laici rimorsi, a un certo punto si rifugia in quel di Varazze all’Eremo del Deserto e nel giro di un mese riorganizza tutto il merchandising dei Carmelitani scalzi, allora in bolletta. Che poi, in fondo, quello era il suo vero mestiere. Dopo una brillante carriera di costruttore era diventato consulente finanziario per i principali gruppi italiani e stranieri dell’epoca (tra questi Orazio Bagnasco, Fideuram e Gruppo Agnelli). Al culmine della carriera guadagnava in un mese quello che l’italiano medio incassava in un anno intero, spostandosi con un Piper bimotore da otto posti per conto della Multiresidence, la prima società specializzata in multiproprietà.

Poi accade il guaio. Siamo ormai nel 1976 e dalla finestra del suo mega ufficio di direttore di una filiale del Gruppo Marzotto inizia a seguire i comizi che Pannella tiene in piazza Navona. Cade folgorato sulla via dell’indifferenza, scoprendo come tanti di essere sempre stato radicale ma senza saperlo. Gettati via grisaglia e stipendio, da quel momento si unisce agli straccioni nonviolenti campando di risparmi e dell’impiego della moglie, quella santissima donna di Mimma Forster (capito onorevoli pandistelle, che in Parlamento avete trovato il primo stipendio vero della vostra vita?).

Lo incontro la prima volta nel 1983. In casa mia madre ascoltava Radio Radicale, e questa come intermezzo musicale trasmetteva solo canzoni di cantautori (i Requiem arriveranno di lì a poco in segno di lutto per i morti per fame e anche, credo, per non dover pagare i diritti alla Siae). Dopo un De Andrè e aspettando un Guccini o un De Gregori mi toccava sentire le dirette alla Camera. Ogni tanto saltava su uno a dire una cosa che mi convinceva e scoprivo che era sempre un radicale. Morale della fava: resto fregato anch’io. René lo avvicino davanti al tribunale di piazza Piccapietra, dove i militanti genovesi si sono accampati da settimane: vogliono essere i primi a depositare le liste elettorali. Un’iniziativa organizzata in tutta Italia per chiedere due cose che oggi sembrano acqua fresca: il sorteggio per la posizione dei simboli sulla scheda elettorale e l’apertura a tutti della funzione di scrutatore, allora ferocemente lottizzata dai partiti. Questa storia durava da anni, per colpa soprattutto del Pci: aveva una tale stima dei suoi elettori che temeva di perdere voti se sulla scheda questi non avessero trovato come sempre il suo simbolo in alto a sinistra. Quella postazione andava quindi presidiata giorno e notte, dandoci il cambio e dormendo in un furgone (ricordo ancora la gaffe che feci nel mio primo, balbettante collegamento con Radio Radicale: «E anche questa notte, nel camper, abbiamo tappato tutti i buchi»). Va detto che anche quell’anno finirà dappertutto a schifio, come da copione: l’arrivo di nerboruti militanti comunisti, l’aggressione a quelli radicali (Roberto Cicciomessere finirà ricoverato in ospedale) e il letterale scavalcamento dei loro corpi nonviolenti. Dappertutto ma non a Genova, dove il geniale René – una volta disposto sulla scalinata d’ingresso al tribunale un cordone di protezione spesso quasi un centinaio di militanti – affida il deposito dei documenti a due ottantenni claudicanti contro i quali nemmeno il camallo più inferocito avrebbe osato muovere un dito.

Da quel momento diventiamo una coppia inseparabile, che da alcuni verrà ribattezzata “Genova per noi”: manifestazioni, banchetti per strada, riunioni nella minuscola sede di piazza Campetto e raccolta di iscrizioni al partito sono lo spartito sul quale ci esercitiamo quotidianamente. Due anni dopo ci imbarchiamo in una strana avventura editoriale: creiamo la seconda rete di Radio Reporter Genova, proponiamo un palinsesto prima di allora mai ascoltato (programmi in lingua per stranieri, spazi settimanali autogestiti affidati a una trentina di associazioni, persino una rubrica sui fumetti) e vinciamo il concorso indetto dalla Rai come migliore emittente radiofonica privata. Nel 1988 ci arruoliamo volontari nella pattuglia di guastatori che spingono per la nomina di Pannella a uno dei due commissari italiani presso la CEE. Una campagna nata in sordina (anche perché nel partito ci credono davvero in pochi) ma che in una manciata di settimane tracima anche sulle pagine dei giornali più ostili. In quell’occasione marciamo distinti per meglio colpire uniti, ovviamente senza alcuna pietà. Io attaccato al telefono di piazza Campetto, spaccando le balle ai potenziali obiettivi che avevo accatastato su un block notes, lui a coordinare il tutto da Roma con la grazia del rullo compressore. Accampatosi nella redazione di Radio Radicale insieme al fiorentino Andrea Tamburi, si tiene a stretto contatto di cornetta con una donna che non vedrà mai: è Simona Pazzarelli (omen nomen), che da casa fa sistematico carotaggio nella sua sterminata rubrica telefonica, piena zeppa di amici del mondo dello spettacolo. È grazie alla sua testardaggine se in breve tempo la lista delle adesioni s’impreziosisce coi nomi di Claudia Cardinale, Walter Chiari, Dario Fo, Fabrizio De Andrè, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Sandra Mondaini, Ennio Morricone, Gino Paoli, Gigi Proietti, Enrico Maria Salerno, Tullio Solenghi, Ugo Tognazzi, Franca Valeri, Antonello Venditti e Raimondo Vianello.

Quanto a René, non c’è mattina che non venga svegliato all’alba da Marco Taradash. Prima di andare in onda con la rassegna “Stampa e regime”, il futuro leader antiproibizionista gli lascia in custodia il suo scetticismo: «Ma che state facendo, dai… È tutta fatica sprecata». Dopo aver amichevolmente ricambiato il buongiorno («Vaffanculo va’») il nostro riparte a testa bassa: rintracciando come un segugio i numeri di telefono anche più riservati, inviando centinaia di fax, tampinando sussiegose segretarie che non di rado vengono sopraffatte dalle sue collaudate tecniche di vendita. Capita così che un giorno Silvio Berlusconi chiami la sede del partito per capire meglio di che si tratti e si senta però rispondere da Danilo Quinto, all’epoca spicciafaccende del segretario Sergio Stanzani, che «No guardi, non si preoccupi. Si tratta di un’iniziativa isolata, senza importanza». Quando lo viene a sapere René prima si gonfia, poi cambia colore, quindi esplode e la magnitudo della telefonata che un minuto dopo fa a Stanzani credo sia stata registrata anche dai sismografi dall’Istituto nazionale di geofisica. Nel frattempo registra le adesioni che Francesco Rutelli e Peppino Calderisi stanno rastrellando in Parlamento (tra queste quelle dei senatori a vita Carlo Bo, Cesare Merzagora e Norberto Bobbio), si accanisce con Umberto Eco, rintraccia Leonardo Sciascia a Racalmuto, perseguita implacabile le segretarie di Gianni Letta e Raul Gardini. Intanto Radio radicale supplisce come al solito all’assenza di qualsivoglia informazione da parte della Rai: organizza diversi fili diretti, sollecita gli ascoltatori a inviare telegrammi ai deputati e senatori della propria città, intervista decine di personalità e informa puntualmente sugli sviluppi parlamentari della vicenda. Il rosario delle adesioni si allunga così a tal punto che per recitarlo tutto i redattori impiegano ormai una buona mezz’ora. Uno dei pochi grani che mancano è quello di Eugenio Scalfari. E dire che René gli avrà mandato una decina di fax con la dicitura “Riservato personale”. Il testo, tracciato a mano con un pennarellone nero, è sempre lo stesso: «HELP!! Ho bisogno di parlarle per non più di 45 secondi. Mi richiami, sono a Radio Radicale giorno e notte». Ma quello nisba, che già all’epoca è troppo impegnato a colloquiare con il suo Io. Ben altra scorza dimostrerà lo scorbutico Indro Montanelli, il quale poco dopo così spiegherà a un lettore le ragioni della sua adesione: «Dopo trent’anni di attività politica condotta con insopportabile frastuono e buggerate da saltimbanco, ma senza torcere un capello a nessuno, Pannella per mangiare a misura del suo appetito – che è pantagruelico – deve aspettare che qualcuno lo inviti a pranzo, perché non ha una lira. Non posso, e credo che nessuno debba dimenticare, che fra le tante buffonate inscenate da questo inesauribile pagliaccio non ce n’è mai stata una mirata alla conquista di qualche posto di potere. Questa è la prima volta che Pannella aspirava a una poltrona, che fra l’altro non gli sarebbe andata affatto larga perché, morto Altiero Spinelli, è probabilmente il parlamentare italiano che meglio conosce i meccanismi comunitari. E infine non posso dimenticare che Pannella mi tiene in pace con la mia coscienza, facendomi sentire più buono di quel che realmente io sia. Quante volte avrei voluto mandarlo all’inferno, Dio solo lo sa. Ma è forse grazie a lui che salirò – se c’è – in Paradiso».

Un’avventura politica tanto incredibile quanto dimenticata, e se volete saperne di più provate a farvela raccontare da uno dei suoi protagonisti, quell’impunita faccia di bronzo di Gaetano Dentamaro: affermatore di coscienza (17 giorni trascorsi nel 1985 in una cella del Forte militare di Boccea, verrà amnistiato cinque anni dopo), militante antiproibizionista per interessi generali e soddisfazione personale, soprattutto per molti anni giornalista da marciapiede di Radio Radicale (ha intervistato più di 15mila passanti, record mondiale non omologato). Oppure, se ci riuscite, recuperate su una bancarella dello strausato un suo libriccino cult dal titolo perfetto: “Perdo&Stravinco”. Essì, perché alla fine quella montagna di adesioni – 130 parlamentari (in gran parte repubblicani, liberali, socialdemocratici e socialisti) nonché un migliaio tra sindaci e presidenti di regione, imprenditori, artisti, intellettuali e giornalisti – partorirà il topolino della nomina di Filippo Maria Pandolfi, impalpabile ministro democristiano insieme a quella del confermato Carlo Ripa di Meana. Tutto merito di Bettino Craxi, che aveva capito come la nomina del compagno socialista sarebbe saltata qualora avessimo avuto successo. E infatti, tornato dalla Tunisia dopo un periodo di svago, per prima cosa aveva cazziato il suo vice Claudio Martelli: «Ma che per caso ti sei rincoglionito di colpo, che stai fiancheggiando Pannella?!».

Ma torniamo a René. Era già stato eletto deputato nella IX legislatura ma aveva deciso di dimettersi l’indomani, rinunciando pure al riscatto dei contributi, per dimostrare che si può far politica anche fuori dal Parlamento (e quando vent’anni dopo Franco Bechis lo inserirà su “Libero” nella lista dei deputati col vitalizio lui darà di matto, incatenandosi in via XX settembre fino a quando non verrà rettificata la stronzata). Nel 1987 subentra invece alla Camera al posto di Massimo Teodori, uno che per formazione e carattere non poteva essergli più distante e che infatti Marco perfidamente gli piazzava ogni volta nella lista in Liguria, suscitandogli un comprensibile entusiasmo: «Ancora quello? Ma se ha il culo incollato sulla poltrona!». Da quello scranno inizia a occuparsi di medicina alternativa, digiunoterapia e altra roba del genere che a dire il vero mi ha sempre lasciato freddino (René questi argomenti li ha studiati per anni e possiede in materia una biblioteca unica in Italia, peccato solo che sia sempre acciaccato e obeso). Sta di fatto che in quel periodo trattiene dal suo stipendio appena un milione mezzo e tutto il resto – qualcosa come 120 milioni all’anno – lo gira paro paro al partito (i buffoncelli a cinque stelle prendano appunti). Poi, mentre io inizio a far danni seri a Genova e in Liguria, lui s’imbarca nell’avventura del nascente Partito transnazionale. Bloccato per quattro ore in treno a Grosseto, arriva in ritardo alla riunione romana che decide la destinazione dei primi missionari. Gli tocca così il Portogallo, da tutti rifiutato. Nessun problema: in neanche due mesi impara la lingua, viene ospitato più volte nella tv di Stato, diventa un personaggio talmente popolare da firmare autografi per strada e intanto recluta un centinaio di pittoreschi iscritti lusitani. Sarà poi la volta della Spagna, dove sempre insieme ad Andrea Tamburi (un compagno prezioso e speciale, che nel 1994 verrà ucciso a Mosca in circostanze mai chiarite) tiene a battesimo la prima lista antiproibizionista alle elezioni iberiche. Quindi si stufa. Rinuncia all’ennesima candidatura (nonostante Marco, tramite la Batteria del Viminale, lo avesse fatto rintracciare dai carabinieri mentre stava prendendo il sole in una sperduta spiaggia della Sardegna: «Ci segua onorevole, è urgente») e decide di concedersi un anno sabbatico come fotografo free lance: suoi reportage sulle isole italiane verranno acquistati dal “Touring Club”, da “Gente Viaggi” e da “l’Europeo”.

Come avrete forse intuito, da uno così avrei acquistato un’auto usata. Lo farò qualche anno dopo coi primi soldi da consigliere regionale. Sempre più vecchia e malandata, a sentir lui quella A112 era «affidabilissima». Come no. (Un giorno la sua batteria mi molla al casello mentre sto andando a trovare la fidanzata a Prato Nevoso. Dopo un intervento-tampone dell’Aci decido di proseguire lo stesso – la solita storia del pelo e del carro di buoi – e per risparmiare energia mi faccio a fari spenti la micidiale Savona-Torino, a quei tempi ancora a senso unico alternato e simpaticamente soprannominata “autostrada della morte”. La poveretta – l’auto, mica la fidanzata – collasserà definitivamente a tre tornanti dall’arrivo e c’è mancato davvero poco che i casi Enzo Tortora e Marta Russo ve li dovesse raccontare un altro). Va detto che a quel mezzo catorcio ero legato. Per anni l’avevamo usato per fare il giro delle redazioni genovesi dei quotidiani: un paio d’ore di inutile sbattimento, che all’epoca non esisteva nemmeno il fax e un comunicato prima te lo battevi a macchina, poi lo facevi fotocopiare in copisteria e quindi lo consegnavi nelle mani di un annoiato commesso, recluso nel suo acquario al piano terra. Una volta lo facemmo persino ruggire – il motore del catorcio, mica il commesso – lanciandolo su una rotta internazionale. È il primo pomeriggio del 16 ottobre 1987 quando ricevo a casa una telefonata di Pannella: «Scusa, porti la macchina?» «Veramente la guido.» «Devo andare urgentemente a Nizza e conto di arrivare a Genova fra un paio d’ore. Mi accompagni?» Il suo amico e compagno Thomas Sankara, carismatico presidente del Burkina Faso, era stato ucciso il giorno prima in un colpo di Stato ordito dall’ex-compagno d’armi Blaise Compaoré e nulla si sapeva della sorte toccata a un altro iscritto radicale, il ministro degli Esteri Basile Guissou. Senza pensarci un attimo, Marco aveva deciso di fiondarsi da solo a Ouagadougou per capire la situazione e cercare di aiutarlo (e oggi beccatevi la Mogherini, se ci tenete). All’aeroporto mi presento con René e la sua macchina, dal momento che la Citroen di mia madre, in quei giorni assente e non rintracciabile, mi è stata negata con un’alzata di sopracciglio dal custode della rimessa. Non appena vede dietro di noi la scalcagnata A112 rossa, Marco posa il borsone e sbotta: «Io lì dentro non entro». René fa allora esercizio pacato di maieutica: «Non rompere il cazzo e sali! Dimmi solo a che ora vuoi arrivare». Giungeremo infatti puntualissimi all’areoporto di Nizza, dopo un viaggio costantemente innaffiato da una pioggia torrenziale e non privo di sorprese. «Sai Marco – gli butto lì a un certo punto – quando mi hai chiamato ero così stanco che stavo per addormentarmi sotto la doccia…» «Ti capisco, è successo anche a me una volta in occasione di un convegno a Dakkar ai tempi dell’Unuri. L’ultima sera me ne ero scopate due di seguito ed ero stremato. Vado a farmi una doccia gelida e collasso. A salvarmi la vita è stato quel cattolicone di Franco Maria Malfatti, che alzatosi presto per andare a Messa mi vide e riuscì a trascinarmi via». E René via specchietto retrovisore che mi ammicca, della serie: «E ‘sta cazzata gliela vogliamo far passare?», e io che gli restituisco uno sguardo di muta eloquenza: «Belin, ma scherzi?» e tutti e due all’unisono a fargli un pernacchione che sarà durato almeno 300 metri. Che poi Marco era anche questo. Come quella volta che mi raccontò del suo primo viaggio all’estero: «Andai in Austria, col compito di accompagnare alcuni clienti di mio padre. Solo che a Vienna restai per un mese campando a Chianti e patate. Alla fine mi caricarono sul treno per Roma che ero ubriaco marcio. Soprattutto non capivo perché una che mi piaceva molto non avesse voluto darmela. Solo dopo son venuto a sapere che i miei compagni le avevano raccontato la balla che fossi malato di sifilide…».

Ma sto divagando, voi siete già sfiniti e quindi volo al 1993. Quell’anno il congresso del Partito radicale approva una mozione che fissa entro il 28 febbraio la soglia minima di 30.000 iscritti, pena il suo scioglimento. Il suo testo è stato proposto in prima battuta proprio da René, da Carmelo Palma e da Mariateresa di Lascia. Quest’ultima meriterebbe un capitolo a parte. Persona geniale, appassionata e dolcissima, con un carattere forse un pochino ispido (una volta un redattore di Radio Radicale, avvicendandola al microfono, se ne uscì con un ironico «Mariateresa ci lascia» e un attimo dopo gli ascoltatori udirono il fracasso di un portacenere di cristallo scagliato a pochi centimetri dalla testa dell’incauto). Morirà di cancro di lì a poco, a soli 40 anni, dopo aver fondato “Nessuno tocchi Caino” insieme al marito Sergio D’Elia. Farà comunque in tempo a dirmi: «Sto scrivendo un romanzo. Sono una strega e vincerò il Premio Strega». È stata come sempre di parola, e nel 1995 il suo “Passaggio in ombra” verrà puntualmente premiato in sua assenza (capito il mio Dibba, capito il mio Franceschini, capito il mio Veltroni?).

Bref, avevamo meno di un mese per farcela, per di più in un Paese stremato da Tangentopoli e che di partiti non voleva più saperne. Altro che mozione, quello era un autentico nodo scorsoio. A Genova mi scateno, senza guardare in faccia nessuno. Iscrivo e intasco assegni e contanti da politici di ogni risma, da professionisti affermati (spillo la tessera anche a quello spilorcio di Victor Uckmar), dal presidente del Genoa Aldo Spinelli e quello della Sampdoria Riccardo Garrone («Senta, ma la ricevuta me la deve proprio fare?» «Ehmm, mi sa che almeno questa volta le tocca»). Dopo pochi giorni René mi telefona da Roma. La sua vocina stentorea mi frantuma come al solito l’orecchio a sventola e non ammette repliche: «Molla tutto, che si ricompone la coppia. Missione speciale: fatti trovare domattina a Sanremo». Il Festival della canzone ha appena aperto i battenti e noi ci immergiamo in un’atmosfera surreale, costellata di ragazzotti coi primi cellulari in mano e tutti con la coda di cavallo simil Fiorello. Guardiani arcigni bloccano l’ingresso. Che si fa? Semplice: fabbrichiamo due finti accrediti stampa per conto di Radio Radicale (validi solo per le prove) e iniziamo ad arare il terreno. Dopo poche ore gli addetti alla sorveglianza alzano le mani in segno di resa: «Andate pure dove cazzo vi pare, che ci siamo stufati di corrervi dietro». Iniziano così quattro giorni di caccia grossa, interrotti soltanto da una manciata di ore di sonno. Poco alla volta il nostro carniere si riempie di prede pregiate: Marta Marzotto (che da quel momento esibisce orgogliosa al petto una grossa spilla, che le abbiamo confezionato in fretta e furia a forma di cuore con il numero del centralino del partito), il capo struttura della Rai Mario Maffucci, Alba Parietti, Tullio De Piscopo, Cristiano De Andrè, Jo Squillo, un’esordiente Biagio Antonacci («Tenete, sono gli ultimi soldi. La produzione mi ha pagato solo l’albergo e se stavolta non sfondo mollo tutto»), Renato Zero, Maurizio Vandelli, il futuro vincitore Enrico Ruggeri e non mi ricordo più chi altri. Solo Lorella Cuccarini rifiuterà l’obolo («Eh, ‘sta storia dell’aborto non mi va giù»). I pochi che ci sfuggono all’Ariston li becchiamo in albergo a notte fonda. Come Claudio Cecchetto, col quale cazzeggio fino all’alba («Tra qualche mese lancio una canzone degli 883. Si chiamerà “Sei un mito”, vedrai che botto»).

Manca però ancora un nome, il più importante: quello del presentatore del Festival Pippo Baudo. Democristianone, avversario storico di Pannella, uno dei nostri più accaniti e longevi censori. Facciamo scattare la trappola alle tre del mattino, bussando spavaldi alla porta della sua camera d’albergo (inaccessibile per tutti ma non per due pazzi ormai in trance agonistica). «Chi è?» «Partito radicale, apra subito!» Lo sventurato risponde. «Vi stavo aspettando» mormora sconsolato. In camera tira fuori il libretto degli assegni, e ne stacca uno con la cifra di 3 milioni. Preso dalla sindrome di Stoccolma ha pure il coraggio di dire: «Ma lo sapete che Pannella l’ho sempre ammirato? Ce ne fossero in Italia altri come lui…». Con René ci guardiamo sforzandoci di non ridere. Poi via, di corsa verso l’ascensore. Al piano terra troviamo la troupe di Striscia la Notizia in preallarme, col Gabibbo che fa festa all’assegno e poco distante Antonio Ricci che spara beffardo: «Conoscendo Pippo, mi sa che è cabrio…». Noi ci godiamo il trionfo e stremati andiamo a dormire. La mattina del 28 febbraio ci alziamo intontiti ma salvi: a conti fatti, scopriremo che di iscritti al Partito ne avevamo reclutati addirittura quasi 40mila. In tutta Italia quella della tessera radicale è infatti diventata nel frattempo quasi una moda, che una volta tanto rotola ovunque come una valanga libertaria e liberatrice. Un vero mistero, e forse non era un caso se “Mistero” era proprio il titolo della canzone che aveva appena vinto il Festival.