Il Presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha aspramente criticato il progetto del ministro del lavoro Andrea Orlando sulle delocalizzazioni, definendolo punitivo verso le aziende. Non sappiamo ancora quale sia il testo di questo progetto, ma sull’argomento possiamo sin d’ora esprimere alcune considerazioni di carattere generale. In un sistema liberale le imprese mirano al profitto, non per rapace avidità, ma per sopravvivenza e crescita.
Un’azienda che miri alla perdita è un ossimoro, come mettere al mondo un bambino per soffocarlo nella culla. Il profitto, dal canto suo, è generato da molti componenti. Abbandonata la rozza e visionaria teoria marxista che si tratti di un plusvalore ricavato dal pluslavoro del proletariato, le opinioni si sono moltiplicate, ma una certezza rimane: l’imprenditore investe se la sua attività viene remunerata. Qui non ci interessa sapere quale sia il suo scopo recondito. Taine diceva che lavorando da soli si può raggiungere il benessere, ma la ricchezza si ottiene solo facendo lavorare gli altri. Einaudi, più raffinato, sosteneva che l’azienda è la proiezione del suo creatore, che mira sì al guadagno, ma più ancora a realizzare la sua personalità. In ogni caso la conclusione è la medesima: l’impresa impiegherà i fattori di produzione nel modo più idoneo a raggiungere lo scopo. Superfluo aggiungere che deve farlo nei limiti della legge, proteggendo la dignità e la sicurezza dei lavoratori, e nell’ambito di una redistribuzione dei redditi attraverso un’equa ed efficiente politica fiscale. Cosa che peraltro da noi è assai opinabile. La delocalizzazione dipende sicuramente dall’eccesso dei costi di produzione, essenzialmente di quello del lavoro. Non perché l’operaio guadagni molto, ma perché all’imprenditore costa troppo: ma di questo cuneo si sa tutto, se ne parla sempre e non si conclude nulla. Tuttavia vi è un’altra causa sottostante che induce i nostri imprenditori a investire all’estero, e parallelamente scoraggia quelli stranieri a farlo da noi. Ed è la lentezza della giustizia. Non solo quella penale, sulla cui riforma si è tanto dibattuto, ma soprattutto quella civile. La giustizia penale è fondamentale per la persona, sia perché incide sulla sua libertà e il suo onore, sia perché condiziona la vita politica, e quel che ne segue, da oltre vent’anni. Nondimeno il suo impatto sulla produzione è relativamente modesto, salvo per la presenza di quell’evanescente reato di abuso d’ufficio che paralizza l’attività degli amministratori pubblici e di riflesso le iniziative dei privati. Ma la giustizia civile è enormemente più importante per il nostro sviluppo. Perché? Perché su di essa riposa la certezza dei rapporti giuridici che costituiscono l’impalcatura di ogni attività industriale, economica e finanziaria, cioè dei contratti che si stipulano e delle obbligazioni che ne nascono. Produrre un bene è importante: ma ancora più importante è consegnarlo e pagarlo nei termini pattuiti: e se ciò non avviene, ottenerne l’adempimento coattivo e il risarcimento del danno in tempi rapidi. Ora in Italia questo non avviene. Il cliente che ha pagato e non riceve la merce, o l’imprenditore che l’ha consegnata e non viene pagato, devono aspettare il triplo, il quadruplo e anche il quintuplo del tempo del loro omologo concorrente europeo. E lo stesso vale per la giustizia amministrativa. Da noi per aprire un bar occorrono anni, in Austria e in Slovenia bastano poche settimane. La delocalizzazione in questi casi non è colpa della spilorceria dell’imprenditore, ma dell’inefficienza dello Stato. Che fare allora? Occorre semplificare le procedure, aumentare l’organico dei collaboratori amministrativi, accelerare la digitalizzazione, sistemare onorevolmente, mi si perdoni il bisticcio lessicale, i giudici onorari, e, cosa più semplice di tutte, copiare quei sistemi, come quello tedesco, assai più snello e pragmatico, dove le cause durano un sesto delle nostre. Certo, ci viene chiesto uno sforzo immane: non dal punto di vista economico, ma da quello culturale, perché la nostra tradizione giuridica formalistica e bizantina identifica la complessità con la saggezza e la velocità con la sciatteria. E invece oggi non è più così. Non lo è per il nostro corpo, dove alcune operazioni chirurgiche che fino a ieri duravano ore e richiedevano settimane di degenza ora si fanno in pochi minuti e la sera ti mandano a casa. E non lo è nemmeno per la nostra anima, perché la confessione, che un tempo era un’estenuante sequenza di minuziosi interrogatori oggi è una sommaria sottomissione penitenziale, più rapida ma non per questo meno efficace. Se dunque anche la Giustizia divina si affida a criteri di vantaggioso dinamismo, a maggior ragione dovrebbe farlo quella umana.
di Carlo Nordio
Il Messaggero, 23 agosto 2021